Perché ogni cambiamento porta con sé delle conseguenze. Le vogliamo ignorare?
Nell’affermare che la competizione non sia adatta alla pratica dell’Art du Déplacement, si chiede non poco: di rinunciare a sponsor, finanziamenti, occasioni di viaggio e lavoro. Si chiede insomma uno sforzo che deve essere compensato con delle argomentazioni solide.
Premessa importante: per poter intraprendere il percorso migliore spesso bisogna cercare di prevedere quali saranno le conseguenze almeno a medio – se non lungo – termine delle proprie scelte.
Credere però di prendere una disciplina che non abbia in sé competizioni formalizzate, inserirle, e non vedere nessun cambiamento macro è quantomeno ingenuo.
Andrò a soffermarmi su tre punti cardine:
1 – La nostra è una pratica che ha la peculiarità di essere fortemente inclusiva e orientata al processo. Questo è un elemento cardine dell’articolo e verrà dato per assodato.
Capisco che molti abbiano voglia di diventare il Michael Jordan dell’ADD, ma intendiamoci: per un Michael Jordan di successo, ci sono un milione di non-Michael Jordan che proveranno a diventarlo, senza riuscirci, con tutti i mezzi possibili (vedi sotto punto 3). Fa scuola, in questo, “Open” di Agassi: “Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato.”
Ci saranno scuole che permetteranno l’ingresso solo ad allievi di un certo spessore, e ci saranno bambini con il fortissimo desiderio frustrato di entrarci. Non potranno mai sentirsi praticanti davvero validi. La loro pratica sarà oscurata dall’ombra di un trofeo che non alzeranno mai.
Sono sicuro che ci sia qualcuno che pensa: “la farei in modo diverso”, che pensa: “siamo tutti amici in fondo, si fa per divertirci”, “noi ne creeremmo una corretta e pulita”.
D’altronde, ognuno pensa di essere l’eccezione finché scopre di non esserlo.
Non ce n’è una al mondo che non sia così. L’unica forma di competizione sostenibile da questo punto di vista è la micro-competizione non formalizzata e senza premio, tra compagni di allenamento, senza nessuno che guardi, fatta DAVVERO solo per divertirsi.
2- La psicologia dello sport e la sociologia ormai sono concordi nell’affermare che la competizione sportiva è una delle cause di disturbi alimentari ([…]prevalence of eating disorders in elite athletes is higher than in the general population, Borgen et Al., 2004, solo per citare uno di tanti studi).
3- Per usare un eufemismo, la competizione è il più grande fattore di rischio per il doping (Non a caso: ricordate che è orientata al risultato e non al processo?).
Soppesiamo i fattori.
La competizione può dare:
– più fondi e ricerca da investire nella pratica;
– più visibilità e validità mediatica;
ma comporta:
– esposizione maggiore al rischio di disturbi come quelli alimentari e modelli estetici/prestazionali stringenti;
– diffusione, grande o circoscritta, di doping (è già probabilmente diffuso ora, figuriamoci quanto lo sarebbe dopo);
– esclusività e orientamento al risultato.
Nell’ADD questo significa perdita di gran parte delle specificitá che le danno valore educativo, derivato da un rapporto intimo e personale con il rischio, rispetto ad altri sport.
Non dimentichiamoci che ogni mattone conta: partecipare a una competizione di Art du Déplacement, organizzarla, supportarla in qualche modo significa mettere un mattoncino verso la direzione che è stata appena descritta.
Questa è una analisi parziale, non vuole essere definitiva. Ed è soprattutto un invito.
Un invito a riflettere oltre la punta del proprio naso, quando si intraprendono alcuni percorsi.
A valutare le conseguenze sul lungo termine che le proprie scelte avranno sulle persone più deboli, sui grassi, brutti, inetti, scoordinati, insicuri, disturbati, strani. Cioè sulle persone che più potrebbero aver bisogno di una pratica sportiva che non li escluda in funzione di quello che sono. L’ADD è una delle poche, oggi, ad avere questa caratteristica.
Agassi: “Mi hanno chiesto spesso com’è, questa vita da tennista, e non ho trovato mai la parola giusta per descriverla. Ma adesso mi sta venendo in mente. È, soprattutto, uno straziante, eccitante, orribile, sorprendente vortice”. Siamo sicuri di volere che anche la nostra pratica diventi questo vortice? Che l’Art du Déplacement non competitiva risulti, alla fine, alla prova degli anni, solo una piccola parentesi che verrà presto dimenticata?
Antonio Gallizzo