“L’Esprit fort in allenamento e la mentalità delle Yamak schools”
WISEFLOW podcast – Episodio 9 – Puntata del 31 maggio 2024 link.
BENVENUTI ALLA SECONDA STAGIONE DI WISEFLOW, IL MOVECAST DELL’ART DU
DEPLACEMENT. MI CHIAMO STANY, YAMAK DA UNA VENTINA D’ANNI; HO TRASFORMATO LA MIA
PASSIONE IN UN MODO DI VIVERE. CON QUESTA TRASMISSIONE IL MIO OBIETTIVO È CHE VOI
POSSIATE CAPIRE MEGLIO LA VOSTRA PRATICA, PER POTER PROGREDIRE. È PER QUESTO CHE
VI PROPONGO DI INCONTRARE ARTISTI E ATLETI ISPIRATORI, DI DISCUTERE CON ALLENATORI
RINOMATI E DI CONDIVIDERE I LORO CONSIGLI, PER AIUTARVI AD AVANZARE MEGLIO
NELL’ALLENAMENTO E NELLA VITA IN GENERALE. GRAZIE PER IL TEMPO CHE PASSERETE CON
ME OGGI E ORA LASCIAMO CHE IL FLOW PRENDA POSTO.
Un episodio con un sapore tutto speciale oggi. Siamo all’inizio della stagione 2 del podcast, ma soprattutto è
una specie di chiusura del primo ciclo, con quest’intervista del quarto fondatore dell’ADD Academy, Chau
Belle-Dinh. Il mio obiettivo, con questo progetto di podcast, è di partecipare alla trasmissione dell’eredità
ricevuta dagli Yamak ed è proprio quello che faremo con questo episodio. […] Oggi Chau è attore e
stuntman, oltre che coach e direttore generale dell’ADD Academy e Presidente della Federazione Yamak. In
questa intervista ci immergiamo nel cuore di ciò che fa l’ADD Academy, parliamo dello spirito che sta dietro
gli allenamenti, della mentalità che si struttura e che si forma passo passo durante gli allenamenti e poi,
soprattutto, discutiamo delle specificità di queste scuole Yamak nella trasmissione e nella formazione dei
futuri Yamak. […]
S.B.: Grazie di aver accettato l’invito.
C.B-D.: Ciao Stany.
S.B.: Sono davvero contento di poter registrare con te, […] perché volevo davvero iniziare con Laurent, te,
Williams, Yann, perché voi siete i quattro fondatori dell’ADD Academy […] e rappresentate l’Art du
Déplacement […]
C.B-D.: Ecco, sì. A me fa piacere, […] perché si possa conoscere la pratica e lo spirito e tutto questo, che a
volte noi fondatori, è vero, non abbiamo troppo il tempo di spiegare o di raccontare, quindi questo è un buon
mezzo per esprimerci e per poter condividere un po’ di più i nostri pensieri, in effetti.
S.B.: Esattamente, è proprio questo. Penso che voi lo abbiate detto molto, io ho avuto la fortuna di allenarmi
accanto a voi e di vivere quotidianamente il modo in cui voi condividete e il modo in cui voi trasmettete la
vostra arte. È vero che però sui media non si sente sempre, o non si sente sempre nel modo giusto, e da qui
l’idea di creare un media che è fatto da un praticante dell’ADD per i praticanti dell’ADD. […]
Primo argomento di cui volevo discutere con te, è la mentalità che ti sei forgiato con tutti questi anni di
allenamento di Art du Déplacement. Vorrei che parlassimo un po’ di che cos’è questo “Esprit fort” di cui si
parla molto e che è anche all’origine della scelta del termine Yamakasi. […] Mi chiedevo cosa volesse dire
per te questo “Esprit fort” di cui tu parli e di cui parlate molto con gli Yamakasi.
C.B-D.: In effetti è un argomento che torna spesso, parliamo sempre della mentalità, parleremo sempre
dell’”Esprit fort”. […] Penso che sia un argomento che torna spesso in ogni tipo di pratica, intendo in ogni
tipo di disciplina. Quando si parla dell’”Esprit fort” intendiamo il rigore, l’obiettivo che si ha, sapere dove si
va, anche sopportare gli allenamenti e le cose che ci portano a scoprirci da soli, la modalità verso la quale ci
si dirige. Quando noi abbiamo cominciato, più di vent’anni fa, non avevamo questa facilità di scoprire le
cose, dovevamo andare a cercarle da soli, dovevamo anche viverle in prima persona […] Non c’erano i
computer o le cose su internet. Quindi le vivevamo realmente. È per questo che penso che l’”Esprit fort” l’abbiamo davvero imparato un po’ per volta, in questo senso. Cioè per forgiarci, per conoscere le cose,
abbiamo dovuto davvero sperimentare e cercarci le cose da soli. […] Per questo anche adesso […] io non ho
voglia di cercare l’informazione con il mio telefono o con il computer. Provo a cercarla con riferimento agli
altri praticanti. […] È così che io mi sono formato. Come posso dire che sono forte, se non so fino a dove
sono arrivato in effetti? […] Ci sono molte persone che dicono “Io sono forte etc.”, ma cos’hai fatto per
essere forte? Cos’hai visto? Cos’hai vissuto? Io personalmente […] ho vissuto con Yann i suoi allenamenti,
con i suoi numeri di ripetizioni che…
S.B.: Erano smisurati, enormi.
C.B-D.: Sì, è questo, non ha senso contare. Ho imparato così. C’era Laurent che non si fermava mai, che 24
ore su 24, anche con tutto quello che gli è successo personalmente, le cose che ha vissuto, ha sempre avuto
questo, è la sola persona che vedo che non si ferma. È questo vissuto che ho voglia di poter portare con me e
di far crescere. I miei allenamenti sono sempre stati così in effetti. Ho sempre aggiunto delle cose, mi sono
sempre detto “Non sono ancora abbastanza forte”. Anche se facevo delle quantità enormi, mi allenavo sette
ore al giorno, mi dicevo che non era ancora abbastanza. Perché pensavo a Yann che sicuramente si stava
ancora allenando e pensavo a Laurent che non so che cosa stesse ancora facendo e a Williams che faceva
altre cose ancora.
S.B.: C’era davvero una grande emulazione fra voi. È molto positivo. Siccome tutti avevano questa cultura
di superarsi, finivate per allenarvi tutti verso l’alto pensando a cosa facevano gli altri.
C.B-D.: Sì, perché in realtà volevo sempre rispettarli. Non era per essere più forte di loro, era dirmi che nel
momento in cui ero con loro, dovevo essere all’altezza, per essere insieme. È questo che mi dicevo sempre,
che dovevo essere forte, ma nel senso di essere forte con loro, non più forte di loro. Sì certo, ci siamo sempre
detti questo, Yann mi ha sempre spinto a saltare più lontano di lui, più in alto di lui, a cercare l’eccellenza,
ma in una competizione positiva, in effetti. È importante, è questa la mentalità penso […] Quando mi alzavo
alle 4 del mattino per andare a correre e finivo alle 15-16 del pomeriggio, nessuno mi aveva detto di alzarmi,
come si farebbe con uno sportivo che compete ad alto livello e ha un obiettivo alla fine. Noi perché ci
allenavamo, in effetti?
S.B.: Bè, è una vera domanda in effetti […] Cosa cercavi dietro questo? Cosa ti motivava ad alzarti e ad
andare ad allenarti? Era il gruppo?
C.B-D.: Sì. Come dici, era avere l’”Esprit fort”, volevo arrivare ad avere questa mentalità. Noi non sapevamo
che cosa fosse “Yamakasi” all’epoca, ma, quando ero più giovane, era questo lo spirito che volevo. Essere
forte, essere sicuro di me, avere fiducia in me stesso, rispettarmi ogni volta che facevo qualcosa. Come
uomo, non avevi necessariamente questa fiducia in te stesso da giovane. Era questo il lavoro che facevamo in
allenamento: ci scoprivamo attraverso le cose. […] Per me le arti marziali sono state la stessa cosa. Perché
nelle arti marziali le persone non avevano una filosofia “da arte marziale”; era “la filosofia”, tra virgolette,
cioè i valori della vita. È questo che regge un po’ l’arte marziale e per noi lo sono stati i genitori,
l’educazione, gli scambi con gli amici, lo scambio con fratelli e sorelle, la famiglia, tutte queste cose che ci
hanno costruito. […]
S.B.: […] Certo. […] Si esce dallo sport tradizionale, dove tu vai sul campo da basket e pratichi il basket,
rispetti le regole, sei in gara, vinci, esci, ti cambi i vestiti e riprendi la tua vita normale. Nell’ADD voi, come
tu lo dici, non lo vivevate come uno sport, era un’attività fisica, passava per il corpo, ma c’era veramente
una filosofia, una ragione di praticare che si inseriva nella vita di tutti i giorni e che superava
completamente le regole dello sport. […]
C.B-D.: Eravamo anche molto di più nella “sopravvivenza”. Quando facevamo un salto, eravamo allo stato
grezzo. Non eravamo per la bellezza del gesto o per le cose come adesso, che ci si pensa di più. Nel salto
cercavamo davvero di restare in vita. […]
S.B.: Sì, capisco. È che oggi c’è una ricerca di movimento puro, fare un gesto nuovo, un gesto tecnico, avere
la bella forma al momento giusto. Invece voi non davate importanza a questa cosa, al movimento in senso
tecnico. Il movimento rappresentava qualcosa di più grande nelle vostre vite. Quando ti alleni o salti, questo
ha un impatto su come ti costruisci come uomo, alla fine, e quindi non è per niente la stessa ragione per
saltare, in effetti.
C.B-D.: Intanto non avevamo riferimenti, […] non misuravamo, ci dicevamo “Lì è più o meno 8 metri, 9
metri. Siamo capaci di saltare di là intanto?”, “Da questa altezza resisteremo o no?”. Perché per il momento
non avevamo mai visto nessuno farlo. […] Gli unici riferimenti erano il vicino che avevi, che fosse Yann o gli
altri che partecipavano a questa energia, a questa pratica, a questo movimento. […] Perché è vero che al
tempo le persone di radunavano molto più sulla base dell’energia, non per forza per obiettivi o per pratica.
[…] Gli amici si allenavano con noi, ci si capiva bene, ci si allenava insieme, quindi c’era una fusione di
energie, con ciascuno che portava un po’ la sua pietra, le sue origini, le sue tradizioni. Era anche questo che
faceva crescere questa mentalità. […] Non condividevamo solo l’allenamento, ma anche i problemi, le cose
un po’ personali. Ognuno vedeva un po’ come vivevano gli altri e con il poco che avevamo… Ho avuto la
fortuna che con Laurent, Yann e Williams, che è mio fratello più piccolo, venivamo da famiglie che ci hanno
sempre trasmesso l’idea che potevamo condividere le cose, anche con il poco che si ha. […] È su questo fatto
che ci ritroviamo noi quattro. Penso che quando abbiamo messo su il gruppo Yamakasi (e anche prima Yann,
con i pionieri di questa pratica), all’epoca non c’erano interessi, era tutto molto naturale, grezzo, non c’erano
interessi di riconoscimento o cose così. Ci capivamo bene, pensavamo di essere sulla stessa via. Poi man
mano che si cresce si hanno degli obiettivi, delle ambizioni etc. ed è questo che fa sì che tu resti legato alle
persone la cui energia è la stessa. […]
S.B.: […] Se prendo un allenamento fisico molto intenso o molto lungo, o se prendo un grosso salto, un salto
in altezza, […] come si esprime questa forza mentale nel tuo modo di approcciare un salto o una sfida? Nel
tuo allenamento quotidiano, quando ti alzi presto o quando ti imponi un ritmo di allenamento, tu ti formi,
formi i tuoi valori, la tua fiducia in te stesso etc. Come si esprime questo quando approcci un salto, una
grossa sfida? […]
C.B.-D.: […] Per esempio, nel mio primo spettacolo che ho fatto di Notre-Dame de Paris, c’era un muro che
misurava 15 metri […] C’era un limite sui salti, ogni volta saltavamo tra i 5 e i 6 metri per fare lo spettacolo,
c’erano sempre dei salti in questo range, e io volevo andare tra i 12 e i 15 metri. Mi sono preparato per 3
mesi per poterlo fare e per dire che potevo resistere all’impatto. La mia fiducia era soprattutto
nell’allenamento che facevo. Quando mi fissavo un salto preciso, mi ci preparavo e il nostro interesse non
era di farlo in senso estetico, ma veramente di sopravvivere alla fine del salto. Quindi mi preparavo sempre
in questo senso, che se lo facevo dovevo passarlo, restare in vita. Tutti gli allenamenti che ho fatto erano in
questa direzione in effetti, di rafforzarmi, di avere una confidenza fisica che superasse addirittura quei limiti.
[…]Era anche questo appunto: […] sapere che si era pronti in qualsiasi momento, indipendentemente da quale
fosse la prova o il salto che ci si sarebbe trovati di fronte, bisognava essere pronti in quel momento.
Lavoravamo in quella direzione. […] Quando Yann ti diceva “Vai, è il momento”, dovevi essere pronto. Non
ci si allena per fare un solo salto. Se so che faccio un certo salto domani là, allora so che qualsiasi altro salto
analogo che troverò, lo farò. Perché so che ne sono capace. È questa misura che ci mettevamo in testa.
All’epoca era molto una questione di essere pronti in ogni momento; rompere un salto era veramente solo per
scoprire la misura, avere un riferimento di salto. […] Ci costruivamo i nostri riferimenti, senza misurare,
senz’altro, sentendoli, sul visivo. […] Io l’ho sempre vissuta un po’ più “nella sensazione”, nel sentire le cose
davvero. Bisogna viverlo, non so spiegarti cosa sia la sensazione di un salto, se non l’hai vissuta. Posso
sempre dirti che lì bisognerà essere solidi, ma non ti basterà.
S.B.: Bisogna fare per capire.
C.B-D.: Sì, ho sempre avuto quel problema lì, come spiegare le cose? È per questo che ai tempi parlavamo
molto poco, per la maggior parte non dicevamo quello che sentivamo. Dicevamo sempre “Vai, sappiamo che
sei pronto, fallo”. Questo perché tu possa viverlo, che non ti si mettano addosso delle cose che forse non
sono la stessa sensazione tua. Yann, quando fa un salto, non sente affatto la stessa cosa che sento io. Parlavamo molto poco di queste cose, ci dicevamo “So che sei capace, vai” oppure tu stesso ci andavi di tua
propria iniziativa. […] Perché ho vissuto queste cose con lui, ho visto come si allena. E poi vedi la scintilla
negli occhi, vedi come si esprime il volto. Qualcuno che impara un salto, che sa che è pronto, lo vedi nei
gesti. Lo vedi subito rispetto al modo in cui affronta il salto. Lo vedo subito sugli allievi, con l’esperienza, e
so chi è pronto e chi non lo è per saltare, con quale approccio si mettono davanti al salto o il modo in cui lo
faranno. […] Noi abbiamo lavorato molto sui non detti, sulla reazione del corpo. Perché, come dicevamo, non
c’erano molti discorsi. Era solo “Vai, fallo”, era semplice, era efficace. Si sapeva cosa fare e poi bisognava
farlo. Restavi solo tu a dover fare. […]

S.B.: Ok. E tu avresti dei consigli da dare a qualcuno che vuole lavorare sull’aspetto mentale? […]
C.B-D.: Bè, ci sono forse delle cose che hanno funzionato per me, che magari non funzioneranno
necessariamente sugli altri. […] Voglio dire che nel lavoro mentale devi sapere dove vuoi andare, è semplice.
[…] Per me, quando uno lavora la propria parte fisica, deve sapere perché lo fa, per quale salto, per quale
obiettivo, perché. […] Bisogna lavorare il proprio fisico con la paura, è strano. Io soffro di vertigini, di base,
ma so che ho lavorato, per esempio, sull’equilibrio a terra e mi dicevo “Perché non potrei farlo in altezza?”.
“Lo controllo super bene in basso, perché sul bordo di un palazzo no?”. Ho sempre cercato di lavorare in
collegamento con questo. Di dirmi, ok, vado, magari passo, ma ci lavoro, mi ci alleno, faccio sempre il
collegamento. […] Bisogna sempre avere questa ragione per potersi allenare. […] Bisogna che ti faccia
piacere, che trovi il motivo. Come dicevo prima, per me è che io sia pronto sempre a sopravvivere e a fare le
cose. […] Mi alleno per questo, per stare bene, per non infortunarmi, per essere in forma. Resto sempre in
contatto con la realtà verso la quale voglio andare. Cerco di non mentirmi, che non serve a niente mentirsi
dicendo “Non è possibile”. Se me lo chiedessero e davvero non fossi capace, non salterei, non posso fare le
cose senza essere pronto. […] Non bisogna mentire a sé stessi. Gli altri non ti faranno niente. […] Se il vicino
lo fa, sarà perché è pronto, ma tu non è che perché hai visto il vicino che lo fa allora sei pronto. Sei tu, non ti
puoi mentire, se ti rompi una gamba, saprai perché ti sei rotto una gamba. […] Siate realisti, non mentite a voi
stessi, bisogna darsi degli obiettivi, semplici a volte, ma bisogna farlo. Bisogna prendere il percorso che si
deve prendere, perché nessuno lo farà al posto tuo. Nel tuo allenamento le cose nessuno le farà al posto tuo.
È bene dirsi che si vuole fare una cosa, ma bisogna anche farla, ed è molto più dura.
S.B.: […] Il secondo argomento che volevo approcciare con te è molto diverso […] Vorrei che parlassimo ora
della tua esperienza di dirigente e difensore dell’ADD Academy. […] Tu sei all’origine dell’ADD Academy e
ora sei direttore dell’ADD Academy e anche Presidente della Federazione Yamak. Mi piacerebbe che
parlassimo un po’ della tua visione. […] Ho visto che è circa nel 2005 che avete ufficializzato questo nome di
ADD Academy.
C.B-D.: Sì, è stato nel 2005. All’inizio, a proposito di storia, sono stati in realtà Yann e Laurent che avevano
sempre in mente questo aspetto della condivisione, della formazione, dell’attenzione alle nuove generazioni.
Abbiamo deciso di tenere il primo termine “Art du Déplacement” e di capire come potevamo condividere la
nostra pratica. La nostra prima struttura si chiamava già Yamakasi all’epoca. […] In effetti è questa
associazione che si è trasformata in ADD Academy. La prima a Evry. […] Abbiamo iniziato a fare corsi a
Evry, a Parigi e, appena dopo, anche a Choisy-le-Roi […], che è il posto dove abbiamo filmato il primo
grattacielo che scalavamo nel film Yamakasi. È stato un po’ un ritorno alle origini. […] Abbiamo cominciato
a tornare in questa città, che ci aveva accolti per la nostra prima grande scena per il film Yamakasi. È per
questo che volevamo ri-condividere qualcosa attraverso questa città, grazie a loro e alla loro comprensione,
che ci ha permesso di poter aprire una struttura sul posto in effetti.
S.B.: […] E perché questo nome di Academy? […]
C.B-D.: […] Volevamo dire che c’era una scuola, una struttura […] Il nome Academy era più accademico,
perché anche le istituzioni potessero riconoscerlo. È per questo che abbiamo scelto qualcosa di simile. Noi la
chiameremo anche Yamak school, fa lo stesso come la chiamiamo, ma volevamo qualcosa di molto
istituzionale. […] A partire da lì, Yann e Laurent hanno iniziato a svilupparla (anche un po’ io e Williams,
[…] che ci aiutava a distanza) un po’ per volta, a Evry; i corsi a Parigi hanno cominciato molto bene e Choisy-le-Roi
si è sviluppato molto bene, a mano a mano che avevamo dei formatori. […] I primi allievi che
finivano il loro corso […] hanno fatto domanda ed è a partire da lì che sono nate altre strutture, come Nantes
[…] e Bordeaux. […] È lì che ci siamo resi conto che quello che era importante era cominciare a trasmettere
l’eredità di quello che è stata davvero la disciplina dell’Art du Déplacement. A partire da lì, mi sono davvero
reso conto, perché all’epoca non avevamo ancora davvero questo pensiero, sapevamo che trasmettevamo
qualcosa, ma qualcosa che non era ancora ben stabilito. E mi sono detto che è stato grazie a voi, alle prime e
alle seconde generazioni, che ci siamo detti che riuscivamo ad avere un’identità propria di questa pratica.
S.B.: […] Dall’inizio eravate in una pratica che è fisica, ma anche mentale ed emotiva e alla fine l’Academy
riflette questo, perché le scuole che sono state aperte così, con gli allievi con cui avevate un buon feeling,
che erano passati per tutte le tappe. Quindi è qualcosa di molto organico, non meccanico, non è che uno ha
un diploma, un tal salto, e allora… non è così preciso, è piuttosto una sensazione e avviene piuttosto
naturalmente. […]
C.B-D.: […] Abbiamo avuto scambi con tantissima gente e molto pochi hanno seguito il percorso e hanno
conservato questa relazione per poter dire a sé stessi che erano pronti a scambiare a loro volta e a
condividere. Perché puoi essere un buon praticante come “performance”, ma una persona che sia un buon
praticante in termini di trasmissione è diverso. È per questo che faccio davvero delle differenze tra il
praticante puro sulla performance e che vuole fare le sue cose e il praticante che ha voglia di scoprire, di
sapere cosa sia la disciplina e di poter trasmettere queste cose. Sono due vie diverse che sono abbastanza
difficili da tenere insieme.
S.B.: Tra l’altro era una domanda che volevo farti, questa: […] come vedi questa differenza tra gli
allenamenti che facevate voi, i primi allenamenti ai primi allievi, dove c’era veramente qualcosa di molto
intenso e familiare, e poi più si va avanti più diventa accademico e si struttura? Pensi che sia lo stesso modo
di allenarsi? Come fai per avere una continuità lì dentro? Perché ho l’impressione che non sia la stessa
cosa, giusto?
C.B-D.: No, penso che non sia più la stessa cosa, in effetti. Quando io ho potuto iniziare realmente ad
allenare delle persone in una struttura, i miei primi allievi li prendevo molto a cuore, li allenavo come se
fossimo fuori, ma ho visto che molto pochi resistevano… Era un po’ un test, non tanto per gli allievi, ma per
me in effetti, rimetteva in discussione il mio modo di allenare la gente. Nel tempo ho capito che c’era un
grande pubblico e che c’erano delle persone in questo grande pubblico che sarebbero state pronte per
condividere, scambiare, capire meglio la storia, lo spirito, l’esperienza, tutto questo vissuto. Quindi, con
l’esperienza di tutti gli anni in cui ho potuto allenare nella struttura, mi sono calmato, ho capito le differenze
tra il grande pubblico e certe persone che ci sono all’interno di questo grande pubblico. […] E infatti le
persone che davvero vogliono “farsi” attraverso questa pratica, giustamente, quando non gli basta più di fare
un’ora o due alla settimana, noi siamo sempre aperti. Per una persona che mi dice che ha davvero voglia di
imparare, non posso più permettermi come prima di prendermi del tempo con le persone, ma se vedo una
persona che ha qualcosa, che fa lo sforzo, che prova a farlo, mi prenderò del tempo con lui. Non come prima,
prima non avevo tutte le preoccupazioni esterne, non è più lo stesso ambiente familiare. Non puoi permetterti
certe cose, selezioni, fai più attenzione con il tempo che condividi con le persone. […]
S.B.: Sì, certo, […] Tutto questo aspetto dei valori, dell’Esprit Yamak che si ritrovano nelle ADD Academy,
come ti auguri che continui a vivere, anche nell’ambito accademico? Ti do un po’ una risposta nella
domanda forse, ma per me uno dei primi elementi che vedo è la scelta del logo dell’ADD Academy, che sono
due braccia che si incrociano e non un tizio che salta. E quindi, già dal logo dell’Academy, si sente questo
aspetto di condivisione, di insieme. Ci sono delle cose così che segnano un po’ la cultura Yamak, da cui
viene questa ADD Academy. E tu invece come speri che questa eredità continui a essere condivisa anche a
livello accademico?
C.B-D.: Intanto è un modo di fare. Questo nell’Academy e attraverso tutti i responsabili delle strutture si
vede. […] Quando abbiamo aperto l’Academy, la cosa che mi tornava in mente sempre, senza interruzione,
della pratica, era che quando si vedesse il logo si potesse conoscere un po’ l’anima e la direzione della nostra
struttura. È per questo che avevo lavorato nella direzione e avevo proposto a Yann e Laurent questa cosa che
facevamo sempre, dopo ogni salto, dopo ogni momento che passavamo insieme. Questo lato umano di cui
parlavamo sempre. E la cosa che mi tornava in mente sempre era questa, di salutarsi o di ringraziarsi, con
due braccia che si incrociano. […] Attraverso l’Academy quello che volevo che si trasmettesse era prima di
tutto l’umano, la persona. […] La nostra pratica era molto più sullo sviluppo della persona e parlavamo molto
dell’uomo, in generale, che sia uomo o donna, di come si sarebbe sviluppato, cresciuto con quello che aveva
attorno. […] Prima della performance fisica, prima di rompere un salto. […] Ero contento anche che i nostri
primi allievi avessero capito tutte queste cose, cosa volevamo dare, perché il motto della scuola era “Si
comincia insieme, si finisce insieme”, siamo una squadra. […] Quando tenevo un corso, cercavo di non dire
“fate questo salto” o “fate questa tecnica” […] Provavo su di me gli esercizi, così potevo trasmetterli. Volevo
davvero che avessero un legame forte con questa disciplina, cercando di fare e vivere le cose. Le ADD
Academy sono state questo, ci hanno permesso di trasmettere qualcosa, avendo la stessa storia forte, che
fosse un legame, e quando parlavamo non avevamo necessariamente bisogno di dire le cose, quando ci si
allenava le persone dell’ADD potevano capirsi, con il movimento. Era questo l’importante. […] È per questo
che faccio una differenza quando parlo dei termini parkour o freerunning o Art du Déplacement. Prima non
facevamo questa differenza sul nome, ma nel tempo abbiamo capito che c’era davvero una piccola differenza
e cioè che il nostro approccio era diverso dagli altri. Per la gente che ci chiede quale sia la differenza: la
mentalità, i valori, l’approccio, anche l’obiettivo è diverso. Quando io parlo dell’umano, nel parkour
parleranno di più della performance, dell’efficacia della pratica. Noi non parliamo di questo. Perché ho visto
talmente le differenze tra gli esseri umani, che anche solo la mia morfologia o il mio approccio al salto è
totalmente diverso da quello di Yann. Ho capito da questo che non posso essere efficace come Yann, perché
impareremo il salto in modo diverso. Ci sarà chi lo attraversa, chi lo rompe, chi andrà più dolcemente. […] La
cosa più importante quando mi allenavo con Yann o con Laurent eravamo noi, non era il salto in sé. In effetti
ci costruivamo dicendo “È il salto”, ma no, eravamo noi. Abbiamo iniziato a svilupparci, ad avere fiducia in
noi stessi, a costruirci e poi abbiamo fatto i salti. È questo che volevamo restasse in eredità: che c’è una storia
propria di ciascuno e che possiamo trasmetterla ed è questo che fa una grossa differenza con tutte le altre
scuole. Che tutte le ADD Academy o anche quelli che usano il termine Art du Déplacement hanno un legame
con noi, perché hanno incontrato o Yann o Laurent o uno di noi, quindi hanno un legame con noi, qualcosa.
Non ci hanno visto attraverso un film, c’è un contatto diretto.
S.B.: Allora mi proietto molto più lontano, ma visto che sei un dirigente devi averci pensato: come vedi il
futuro più a lungo termine? […] Come lo vedi crescere nei decenni e nei secoli futuri? Anche quando voi non
ci sarete più, quando i fondatori non ci saranno più, quando tutte queste generazioni saranno passate, cosa
dovrebbe restare? Come immagini le cose? […]
C.B-D.: Quello che per me è importante è salvaguardare questa eredità di storia, che si sappia cos’è questa
pratica, cos’è questa mentalità, questa energia che abbiamo voluto trasmettere alle persone. È per questo che
ora il termine Art du Déplacement è importante per noi: sarà vivo tra cento o tra duecento anni? Perché
anche dopo di voi, dopo la prima generazione e poi dopo la seconda e la quarta generazione che abbiamo ora,
dopo di loro lo useremo ancora? Potremo ancora trasmettere l’eredità dell’Art du Déplacement? Saremo
riusciti a fare questo? Non sono completamente sicuro o meno, perché ora l’utilizzo del termine parkour o
freerunning o Art du Déplacement è talmente mischiato che non si sa più davvero. E tuttavia quelli dell’ADD
lo sanno, ma il grande pubblico non sa necessariamente, perché sono sempre gli stessi termini che mischiano
un po’ tutto. Sarà questa la difficoltà, penso, per questo non mi proietto troppo. Se ci si riesce, se nel futuro,
tra duecento anni, si utilizzerà ancora l’Art du Déplacement nel senso corretto, non mi importa che chiamino
Art du Déplacement quello che è ora il parkour, se utilizzeranno questo nome spero che sia perché ci sarà un
allievo che ha capito quello che abbiamo vissuto. […] È il vissuto, questa mentalità che è difficile mantenere.
Già è difficile nella terza/quarta generazione, ho l’impressione che si perda un po’.
S.B.: C’è una trasformazione, potremmo chiamarla una “sportivizzazione” della disciplina. Voi avete creato,
come dicevi, in origine, un gruppo tra famiglie, amici, non c’erano interessi esterni, lo facevate per voi. Ed è
vero che oggi ci sono dei veri interessi esterni. Voi avete trovato il vostro percorso per viverne, che è passato
per il cinema e poi per l’insegnamento etc., avete provato le vostre piste, le avete costruite, ma oggi un
adolescente che trova questa disciplina che gli piace, vede che ci sono delle vere opportunità e le
opportunità che si presentano sono create da marchi. Sono delle opportunità sportive, di gare, o opportunità
mediatiche, e quindi piuttosto che farlo per sé stessi ci si può ritrovare a farlo per qualcosa, per viverne, e
questo può snaturare la ragione della pratica, non so.
C.B-D.: In effetti, quello su cui abbiamo avuto un po’ di fortuna è che quelli della terza, della quarta
generazione, siccome hanno iniziato molto giovani, si sono allenati per sé stessi. Non è come ora che c’è
tutta una nuova generazione di giovani che si allenano, ma sanno perché lo stanno facendo; che lo fanno
perché si parla di marchi, bisogna essere ben visti, belli rispetto ad una certa applicazione. Abbiamo avuto
una generazione che era giovane e che l’ha fatto per sé, ha attraversato un po’ quello che abbiamo sentito, i
valori, l’allenamento, la durezza delle cose. È questo che voglio che le persone mantengano, che si capisca
che ti alleni per te stesso, intanto. È questo che è importante nella pratica, che ti alleni per te, per fare delle
cose. […] È questo che è importante per me per il futuro, che ci si alleni innanzitutto senza ambizioni,
intendo senza ambizioni di poter vivere di questo. Quando vedo già dei ragazzini di 12 anni che, anche da
noi, si allenano e si filmano: se non ti filmassi, faresti la stessa cosa? Mi dico che forse non resteranno molto
a lungo. […] Si demotiveranno molto presto, passeranno ad altre cose prima o dopo, penso. Perché non hanno
trovato la vera motivazione. Questa motivazione non basta, di allenarsi perché così si passa su Instagram.
S.B.: E hai delle chiavi, dei modi di far capire questa cosa? Io trovo, per dire, che voi lo esprimiate bene già
attraverso voi stessi. Quando ti si vede […], quando ci si allena con te, si sente questo. Si vede come ti alleni,
dai l’esempio in effetti. Ma invece per dei giovani che arrivano e che non capiscono subito, giovani o meno
giovani tra l’altro, ma che non capiscono che è una ricerca personale, come li porti a questo? A capire
questo?
C.B-D.: Non penso che ci siano delle risposte esatte su questo. Ad un certo punto puoi far loro vivere delle
cose, ma non ho voglia di dargli la risposta in realtà, perché spesso quando dici “Ma guardati, tu ti filmi, fai
le cose…” ti sembra una buona risposta? Quindi ce li porto in modo diverso, cerco di fare in modo che sia
più istintivo, più naturale. […] Faccio fatica a dirlo a parole, lo dico una volta, ma cerco di portarceli con più
istinto, che siano più naturali sulle cose. Perché ho notato che le parole non funzionano con certe persone. È
lì che vedo che nella pratica, nel tempo, sono queste persone che non resteranno in effetti. […] In effetti ci
perdiamo troppo con delle illusioni o delle immagini, che non sono la vita vera. I video per me non sono
qualcosa che ti mette il piede nella staffa per poter vivere le cose vere. Perché a vedere dei video, dei tizi che
lanciano salti, non sai cosa fanno prima o dopo o durante. C’è anche questo rapporto di copiare sempre,
imitare e perdere la propria identità. […] I video vanno bene, ti aiutano a poter esplorare delle nuove tecniche
etc. ma in realtà ti perdi, perdi te stesso. Quando vedo che vai in Asia e fanno gli stessi salti, gli stessi gesti;
se vai in Europa o dappertutto nel mondo tutti fanno la stessa cosa. È diventata una pratica talmente… è un
po’ come la ginnastica, in effetti. È sterilizzata, asettica, è un po’ stupido. […] Quando penso a noi, che sia
Yann o Laurent, quando facciamo un salto non ci muoviamo nello stesso modo, articoliamo diversamente,
facciamo cose sul momento che possono essere diverse. Anche ora negli allenamenti, viviamo i nostri
allenamenti e non facciamo affatto le stesse cose. Ed è un bene, perché quando ci incontriamo ci ispiriamo, ci
diciamo “Ah Laurent fa questo, Yann fa questo!”. Invece ora è sempre la stessa cosa, è sterilizzare, rendere
asettico, sono sempre le stesse regole o le stesse cose e questo mi stanca un po’, in effetti. Non riesco a
ritrovarmi su questa cosa. Per questo mi dico che se l’ADD continuerà a conservare questo sarà forte.
Riuscire a sviluppare ogni allievo, ogni persona a crescere per sé stessa, dicendo “Bè, lui salta così, fa questo,
fa quello, è il suo modo d’imparare”. È per questo che non abbiamo “normato” i nostri coach, dicendo
“L’ADD è così, quando fai un saut de chat l’insegnamento è questo”. […] Per essere liberi. […] Non
possiamo essere tutti gli stessi, per fortuna. È per questo che alcuni fanno fatica a lavorare con noi,
chiaramente, perché non siamo dentro un quadrato, non vogliamo starci dentro, ogni volta sconfiniamo,
passiamo attorno, perché lasciamo libera scelta di fare le cose. A volte è disturbante […]

S.B.: […] Un’ultima cosa: mi piace chiedere ai miei invitati che cosa rappresenta il flow per loro. […] Per te
rappresenta qualcosa il flow? È qualcosa che usi?
C.B-D.: […] Bè, bisogna ben tappare i buchi! (ride). È una battuta che faccio spesso, ma in effetti è questo, il
legame, la connessione. Non dico necessariamente nel movimento, parlo anche del legame con le persone.
Le persone a volte credono che io sia duro, ma in effetti io sono molto timido, molto riservato nel mio modo
di fare. È la mia educazione che è stata così. […] Dove tu parli di flow, io ho sempre parlato di legami, ed è
potersi dare l’opportunità di legarsi gli uni agli altri attraverso questo. Perché sono una persona molto dura
nell’allenamento, sono un po’ più rigido di altri, perché faccio fatica a rilassarmi. […] Mantengo la mia
forma, il mio modo di fare. Ma almeno sono legato agli altri, con la famiglia Yamak, la famiglia ADD ed è
questo che mi mantiene nel flow.
S.B.: Capisco, è bello come messaggio. Si è come si è, abbiamo questa personalità di cui parlavi prima,
questa forza interiore, ma c’è ciò che ci differenzia e anche ciò che ci lega e che ci unisce e quindi tu vedi il
flow anche attraverso il legame tra gli uni e gli altri.
C.B-D.: È che siete riusciti a tappare i buchi, le cose che mi mancavano, è importante ogni persona che mi
circonda. Per questo parlo molto di più di famiglia ADD, perché per me è davvero importante, è quello che
mi ha permesso di crescere, di evolvere, di essere il Chau Belle che sono ora e che continuerà ad evolvere e
crescere con tutti quelli che hanno continuato a vivermi attraverso la pratica. […] Non parlo più di disciplina
o di sapersi muovere. Molti lo dicono: “Se non riuscirò più a saltare, a fare le mie performance, smetterò
l’ADD?”. “Sarai sempre uno Yamakasi o sarai sempre nell’Art du Déplacement?” Ma sì, perché l’ho sempre
fatto più come un’arte di vita. È per questo che abbiamo tenuto questo nome Art du Déplacement, perché
volevamo raggruppare tutte queste cose. Quando si parla di flow, dei tuoi salti, di connessione con gli altri, di
essere forte, di Esprit Yamak, di questi valori, è tutto questo insieme quello che si fa. È questo che si chiama
arte, in questa disciplina. Non volevo metterlo in una casella. […]
S.B.: […] Ancora una volta Chau, grazie per il tempo che mi hai concesso e che hai concesso agli
ascoltatori. Penso che ci siano molti bei messaggi e penso che troveremo tutti delle cose su cui meditare e
delle cose da portare nella nostra pratica grazie a quello che hai condiviso qui, quindi grazie.
C.B-D.: Grazie a te di continuare a voler condividere e trasmettere e scambiare con le persone. È importante,
è grazie a voi. Come ho detto, anche in quanto Presidente della Federazione Yamak, la cosa più importante
non siamo più noi, i fondatori che hanno fatto il lavoro, è il vostro turno. […] È importante per noi avervi tra
di noi, al nostro fianco, anche se ognuno è un po’ disperso in Francia o anche nel mondo […] Ma è
importante che ci siate, perché non potremo farlo senza di voi. […]
Si ringraziano
- per l’intervista e il podcast: Stany Boulifard (ADD Academy Nantes)
- per la traduzione: Paola Dadone (Genova Parkour)